domenica 4 maggio 2008

Carino Cordone (Carì), scultore
















Carì (Carino Cordone) è nato il 5 maggio 1940 a Giulianova, e qui vive e svolge il suo lavoro di acconciatore per uomo". Ci conosciamo da una vita ed ho imparato per esperienza diretta, che si offende se lo chiamano "artista", perché, da dilettante sopraffino ci tiene a precisare che il suo è solo un hobby, cui dedica, pero, tutto il tempo libero che il lavoro gli lascia.
Aveva cominciato, qualche tempo fa, impegnandosi in una realizzazione di immagini, utilizzando materiali poveri, quali le conchiglie marine. In occasione di una delle sue mostre, lo battezzai, alla giuliese, il poeta delle cucciole". La bidimensionalità delle sue opere gli procurava però, una fastidiosa sensazione di incompiutezza, dovuta al bisogno di esplorare la terza dimensione.
Una breve incursione nella produzione di opere in filo metallico gli ha consentito, sì, di realizzare qualcosa che cercava di riempire il vuoto, ma la "trasparenza delle opere stesse non era sufficiente a soddisfare le sue esigenze. L'occasione per superare questo suo anelito verso l'opera "piena" è stato l'incontro con la pietra leccese, che, forse, ha risolto i suoi problemi artistici.
Con i suoi lavori, Carì riesce a risvegliare in me emozioni dimenticate. Ma io sono forse condizionato, nel mio giudizio,dal fatto che gli sono amico;ed allora, e opportuno riportare il parere di qualcuno che se ne intenda più di me: ubi maior...

C.M.Conte
Il parere dell’esperto

La riproposizione o,meglio la riscrittura di sculture note, come, per esempio, quello del gruppo lapideo, già polìcromo, della Madonna con Bambino,di autore ignoto, posto sull’architrave della chiesa di Santa Maria a mare di Giulianova, lascia intravedere nell'impegno di Carì una consapevolezza formale, rara ai giorni nostri, accompagnata da un approccio compiaciuto ed entusiasta al modello ispiratore.
L'artista giuliese adotta materiali molto simili a quelli medievali, la cui lavorazione richiede, come è noto, uno sforzo paragonabile a quello dei maestri comacini.
Una adesione, oggi si direbbe fuori luogo viste le tendenze contemporanee dell'arte, in grado di determinare nell'artista giuliese, e in chi ha voglia di
guardare le sue opere, una poetica di tipo anacronistico-documentale. La riscrittura di quelle sculture, più o meno famose, viene effettuata con gli stessi sistemi e la stessa ingenuità prospettica e plastica di allora, in un inconsapevole ritorno ad una erà
giottesca. Del resto, nella storia della scultura italiana, già Arturo Martini aveva percorso, con altri mezzi e finalità, il sentiero impervio del ritorno agli etruschi per poi giungere fino al medioevo.
Quella riproposizione martiniana aveva ed ha del commovente, permanendo nelle sue rappresentazioni quel sentimento archetipo di naturalismo astratto.
Ecco allora che le sculture di Cari si accostano, oltre a tali poetiche, soprattutto a quell'infaticabile attività dei lapicidi della montagna teramana che, nel medioevo fino ai giorni nostri, hanno mantenuta inalterata quella koinè, così significativa e pregnante, da determinare episodi estremamente coerenti, sia dal punto di vista formale che iconologico.
La circostanza curiosa, infine, secondo la quale un artista nato e vissuto in un paese costiero, abbia fatto proprio anche il linguaggio squisitamente plastico
appenninico, nonostante la tradizione fittile degli scultori giuliesi, dimostra come vi sia una continuità antropologica nell'uso di speciali materiali che, di
solito, dalla montagna trasportati al mare sotto l'aspetto di piccole pietra, qualche volta, però, intercettati, finiscono per divenire interessanti sculture:
quelle scolpite da Carì.
A.D.S.

1 commento:

Unknown ha detto...

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