Lino Manocchia, giornalista e figlio d'arte.
di Walter Di Berardinis, tratto da Abruzzopress (Agenzia Giornalistica diretta da Marino Solfanelli).
NEW YORK, 5 Giugno ’06 – Lino Manocchia racconta gli anni della giovinezza a Giulianova, gli studi al Collegio aeronautico di Forlì, l'incontro con il Duce, la guerra, il dopoguerra, l'arrivo negli Usa, il Bronx e la sua carriera giornalistica negli anni del boom. È nota la sua passione per il giornalismo che, sembra, non possa sfuggire all’era di Internet. È uomo poliedrico e dai mille interessi. Le sue passioni: la penna (oggi il pc) e i motori di cui è esperto ed appassionato, le auto da corsa che nacque dopo una intervista che gli concesse il grande Tazio Nuvolari, prima di una importante edizione della “Coppa Acerbo” di Pescara.
In questa intervista Lino racconta la sua vita di oggi, di abruzzese negli Usa, e del suo attaccamento alla regione che lo ha visto nascere, della sua giovinezza, della guerra, dell’incontro con il Duce e dei personaggi del cinema da lui intervistati.
Lino Manocchia, che ricordo hai della tua giovinezza?
«Sono nato a Giulianova da padre giuliese, Francesco Manocchia, giornalista illustre e scrittore, figlio di Pasquale e Lucia Macellaro, nato il 6 marzo 1890 e morto il 29 febbraio 1944, e da madre toscana, Filomena. La mia infanzia è trascorsa tra i nonni materni ed i genitori, i quali, un bel giorno, ricevettero dai due fratelli paterni (Gino e Marino, proprietari di una fabbrica di tabacchi in Pensylvania) i biglietti che li avrebbero portati in America. Ma la nonna, Lucia Macellaro, di salute cagionevole, convinse mio padre a restare a Giulianova, ove sono cresciuto, ho studiato e ho iniziato a scrivere sui giornali mentre frequentavo il Regio Istituto Tecnico “Raffaello Pagliaccetti”. Ricordo ancora i miei compagni di scuola: Renato Campeti, Carlo Marcozzi, Guido Pompei, Ernesto Ciprietti, Dante Paolini (poi famoso giocatore della serie A), Epimerio Taffoni e tanti altri che oggi non ci sono più».
E poi cosa hai fatto?
«Ho completato gli studi nel Collegio Aeronautico “Bruno Mussolini” di Forlì; divenni aiutante di campo del Colonnello Moore col quale, fui trasferito a Mostar (oggi ex Jugoslavia). Anche a Forlì mi feci avanti un bel giorno, stringendo la mano al Duce, in visita al Collegio».
Hai stretto la mano al Duce?
«Certo! Ricordo un episodio curioso. Al termine della cerimonia, il redattore dell’Eiar (la Rai dell’epoca) dettò il resoconto ad un aviere addetto all’ufficio. Ma, poverino, col sudore che gli colava dalla fronte ed il tremore che lo scuoteva, non riuscì a battere una riga giusta. Al che il Colonnello Moore mi chiamò e mi diede l’ordine di trascrivere il resoconto della giornata appena trascorsa. Mussolini, presente, si congratulò con me e chiese come mi chiamavo. Quando dissi il nome, il duce del Fascismo sorrise ed esclamo: “Il figlio di Francescuccio ?”».
Mussolini conosceva tuo padre?
«Sì. Mio padre, in quel periodo scriveva per il “Popolo d’Italia” il giornale più letto in Italia».
Cosa ricordi dell’armistizio dell’8 settembre?
«Una lunga odissea sui vagoni merci, i campì d’internamento tedeschi non si potevano definire certamente “umani”, ma meglio della morte erano. Quando ancora oggi mi chiedono perché non scrivo un libro-ricordo di tutte le vicende italiane e americane rispondo che ”La storia è quella che è, resta, ma il più delle volte si dimentica”. Perciò desidero dimenticare anche la Germania ed i suoi “lager”».
Quanto tempo sei stato rinchiuso?
«Tre lunghi anni. Solo al mio ritorno (nel 1945), seppi delle bombe cadute sulla mia casa (oggi dietro il Municipio) dove perse la vita mio padre Francesco e della triste situazione in cui si trovavano i miei tre fratelli (Franco, Benito ed Omero) e la mamma. Confesso che non amo tornare indietro nel tempo per dare dettagli di quei momenti, preferisco ricordare, semmai, la mia giovinezza, quando si correva la coppa Alleva per la festa della Madonna dello Splendore (festa della Santa Patrona di Giulianova) del 21 e 22 aprile, di 120 km e la mia partecipazione a bordo
della splendida Lancia Lambda di Pierino Di Felice al seguito dei ciclisti, e poi la banda di Introdacqua, diretta dal noto maestro Di Rienzo».
E poi c’era il calcio, quello vero di una volta…
«Era vivo e combattuto. I giocatori più in voga erano Paolini, Taffoni, Poliandri e Rossi. Memorabili le partite contro il Macerata, la Sambenedettese, la Fermana, il Teramo, il Chieti, il Vasto ed altre città impegnate nella serie C del 1947/48».
Ma a Giulianova ti ricordano anche per le splendide feste d’estate. Non è così?
«Sulla grande terrazza del Kursaal, allestivo serate splendide fatte di danze, canti ed elezioni di Miss Giulianova intorno al caratteristico “trenino di Santa Fè”. Purtroppo, dicono, il bello dura poco ed anche la permanenza nella mia città finisce rapidamente. Mi innamorai di Ada Di Michele, una magnifica e semplice fanciulla, nata nello stato americano dell’Ohio da Adriano Di Michele di Giulianova (ove aveva tanti parenti), e ci sposammo salutando gli amici di sempre come gli indimenticabili: Bruno Solipaca, Giorgio De Santis, Dante e Renato Granata, Claudio Gerardini, “Carluccio” Marcozzi, Renato Lattanzi, riuniti per la cena d’addio e tanti altri compagni. E raggiunsi gli States».
Come è stato l’impatto con il Nuovo Mondo?
«E’ una terra sconfinata, avvincente, aperta a chi ha volontà di lavorare e migliorare. Sono arrivato a New York nel marzo 1948 a bordo della nave Vulcania, una volta sbarcato entrai a far parte della famiglia di Adriano Di Michele nel rione del Bronx, a quei tempi definita la “Little Italy”, dove gli italiani intrecciavano discussioni serali pro e contro la Juventus, Inter o la Fiorentina. Dopo una breve parentesi, aprii un ristorante dal nome “Capri” insieme ad un cuoco sorrentino, ma dovetti vendere dopo soli 3 anni, essendo impegnato con il mio vero lavoro: la Voice of America, la Rai e altri giornali, nonché un programma televisivo settimanale sulla rete WEVD ed uno radiofonico sulla WHOM».Tramite la Voice of America ho avuto modo di intervistare cinque Presidenti degli Stati Uniti.
Hai intervistato moltissime star del cinema (per noi ultimamente hai incontrato Paul Newman)…
«Sì ne ho incontrati proprio tanti. Di tutti conservo ancora le preziose e rare foto d’epoca. “Era un’altro mondo fatto di balletti, eleganza, snobismo”. Era la copia di Hollywood spostata a New York e Washington. Mi ambientai rapidamente intervistando la lunga schiera dei personaggi del mondo della celluloide, come Frank Sinatra (nella foto in alto insieme a Walter Winchell il più famoso giornalista Usa. (Lino è il primo da sinistra ndr ), Dean Martin, Perry Como, (Foto con Lino)(questi due abruzzesi) e tanti altri illustri personaggi. L’America mi “ingoiò” letteralmente».
Sei stato circa 10 anni a Little Italy e poi ti sei trasferito…
«Esatto, nella zona di Westchester, divenuta una delle più ricche degli Stati Uniti, ad un tiro di fucile dagli aeroporti che usavo quasi settimanalmente per portarmi nella varie città dove si svolgeva una manifestazione sportiva. Infine nel 2000, la famiglia decise di “espatriare” cercando un luogo calmo, pacifico, capace di ispirare l’arte di mio figlio Adriano e anche la mia verve giornalistica . La scelta cadde su Cambridge, a nord dello stato di New York, distante 3 ore da Montreal, 3 da New York, un’ora da Saratoga spring, famosa per il suo ippodromo e un’ora anche da Albany, capitale dello stato della “Grande Mela”, e mezz’ora dal Vermont ricercato posto montano di sci».
Sembra un paesaggio da sogno che la maggior parte degli Italiani conosce solo grazie alla Tv e ai film
«In effetti un magnifico fiume sfiora oggi la nostra tenuta, dove Adriano e gli amici effettuano battute di pesca, tanti ettari di terreno verde, alberi secolari ed un garage capace di ospitare 9 macchine antiche, passione di mio figlio e del giovane Adriano Jr.. E’ veramente un paradiso che credo di meritare, dopo una incredibile carriera pluridecennale».
Ci sarebbero veramente tantissime cose che vorrei ancora chiederti… magari, però, ripensaci: quel libro dei ricordi scrivilo: anche solo la parte americana basterebbe.
Grazie Lino e buon lavoro.
NEW YORK, 5 Giugno ’06 – Lino Manocchia racconta gli anni della giovinezza a Giulianova, gli studi al Collegio aeronautico di Forlì, l'incontro con il Duce, la guerra, il dopoguerra, l'arrivo negli Usa, il Bronx e la sua carriera giornalistica negli anni del boom. È nota la sua passione per il giornalismo che, sembra, non possa sfuggire all’era di Internet. È uomo poliedrico e dai mille interessi. Le sue passioni: la penna (oggi il pc) e i motori di cui è esperto ed appassionato, le auto da corsa che nacque dopo una intervista che gli concesse il grande Tazio Nuvolari, prima di una importante edizione della “Coppa Acerbo” di Pescara.
In questa intervista Lino racconta la sua vita di oggi, di abruzzese negli Usa, e del suo attaccamento alla regione che lo ha visto nascere, della sua giovinezza, della guerra, dell’incontro con il Duce e dei personaggi del cinema da lui intervistati.
Lino Manocchia, che ricordo hai della tua giovinezza?
«Sono nato a Giulianova da padre giuliese, Francesco Manocchia, giornalista illustre e scrittore, figlio di Pasquale e Lucia Macellaro, nato il 6 marzo 1890 e morto il 29 febbraio 1944, e da madre toscana, Filomena. La mia infanzia è trascorsa tra i nonni materni ed i genitori, i quali, un bel giorno, ricevettero dai due fratelli paterni (Gino e Marino, proprietari di una fabbrica di tabacchi in Pensylvania) i biglietti che li avrebbero portati in America. Ma la nonna, Lucia Macellaro, di salute cagionevole, convinse mio padre a restare a Giulianova, ove sono cresciuto, ho studiato e ho iniziato a scrivere sui giornali mentre frequentavo il Regio Istituto Tecnico “Raffaello Pagliaccetti”. Ricordo ancora i miei compagni di scuola: Renato Campeti, Carlo Marcozzi, Guido Pompei, Ernesto Ciprietti, Dante Paolini (poi famoso giocatore della serie A), Epimerio Taffoni e tanti altri che oggi non ci sono più».
E poi cosa hai fatto?
«Ho completato gli studi nel Collegio Aeronautico “Bruno Mussolini” di Forlì; divenni aiutante di campo del Colonnello Moore col quale, fui trasferito a Mostar (oggi ex Jugoslavia). Anche a Forlì mi feci avanti un bel giorno, stringendo la mano al Duce, in visita al Collegio».
Hai stretto la mano al Duce?
«Certo! Ricordo un episodio curioso. Al termine della cerimonia, il redattore dell’Eiar (la Rai dell’epoca) dettò il resoconto ad un aviere addetto all’ufficio. Ma, poverino, col sudore che gli colava dalla fronte ed il tremore che lo scuoteva, non riuscì a battere una riga giusta. Al che il Colonnello Moore mi chiamò e mi diede l’ordine di trascrivere il resoconto della giornata appena trascorsa. Mussolini, presente, si congratulò con me e chiese come mi chiamavo. Quando dissi il nome, il duce del Fascismo sorrise ed esclamo: “Il figlio di Francescuccio ?”».
Mussolini conosceva tuo padre?
«Sì. Mio padre, in quel periodo scriveva per il “Popolo d’Italia” il giornale più letto in Italia».
Cosa ricordi dell’armistizio dell’8 settembre?
«Una lunga odissea sui vagoni merci, i campì d’internamento tedeschi non si potevano definire certamente “umani”, ma meglio della morte erano. Quando ancora oggi mi chiedono perché non scrivo un libro-ricordo di tutte le vicende italiane e americane rispondo che ”La storia è quella che è, resta, ma il più delle volte si dimentica”. Perciò desidero dimenticare anche la Germania ed i suoi “lager”».
Quanto tempo sei stato rinchiuso?
«Tre lunghi anni. Solo al mio ritorno (nel 1945), seppi delle bombe cadute sulla mia casa (oggi dietro il Municipio) dove perse la vita mio padre Francesco e della triste situazione in cui si trovavano i miei tre fratelli (Franco, Benito ed Omero) e la mamma. Confesso che non amo tornare indietro nel tempo per dare dettagli di quei momenti, preferisco ricordare, semmai, la mia giovinezza, quando si correva la coppa Alleva per la festa della Madonna dello Splendore (festa della Santa Patrona di Giulianova) del 21 e 22 aprile, di 120 km e la mia partecipazione a bordo
della splendida Lancia Lambda di Pierino Di Felice al seguito dei ciclisti, e poi la banda di Introdacqua, diretta dal noto maestro Di Rienzo».
E poi c’era il calcio, quello vero di una volta…
«Era vivo e combattuto. I giocatori più in voga erano Paolini, Taffoni, Poliandri e Rossi. Memorabili le partite contro il Macerata, la Sambenedettese, la Fermana, il Teramo, il Chieti, il Vasto ed altre città impegnate nella serie C del 1947/48».
Ma a Giulianova ti ricordano anche per le splendide feste d’estate. Non è così?
«Sulla grande terrazza del Kursaal, allestivo serate splendide fatte di danze, canti ed elezioni di Miss Giulianova intorno al caratteristico “trenino di Santa Fè”. Purtroppo, dicono, il bello dura poco ed anche la permanenza nella mia città finisce rapidamente. Mi innamorai di Ada Di Michele, una magnifica e semplice fanciulla, nata nello stato americano dell’Ohio da Adriano Di Michele di Giulianova (ove aveva tanti parenti), e ci sposammo salutando gli amici di sempre come gli indimenticabili: Bruno Solipaca, Giorgio De Santis, Dante e Renato Granata, Claudio Gerardini, “Carluccio” Marcozzi, Renato Lattanzi, riuniti per la cena d’addio e tanti altri compagni. E raggiunsi gli States».
Come è stato l’impatto con il Nuovo Mondo?
«E’ una terra sconfinata, avvincente, aperta a chi ha volontà di lavorare e migliorare. Sono arrivato a New York nel marzo 1948 a bordo della nave Vulcania, una volta sbarcato entrai a far parte della famiglia di Adriano Di Michele nel rione del Bronx, a quei tempi definita la “Little Italy”, dove gli italiani intrecciavano discussioni serali pro e contro la Juventus, Inter o la Fiorentina. Dopo una breve parentesi, aprii un ristorante dal nome “Capri” insieme ad un cuoco sorrentino, ma dovetti vendere dopo soli 3 anni, essendo impegnato con il mio vero lavoro: la Voice of America, la Rai e altri giornali, nonché un programma televisivo settimanale sulla rete WEVD ed uno radiofonico sulla WHOM».Tramite la Voice of America ho avuto modo di intervistare cinque Presidenti degli Stati Uniti.
Hai intervistato moltissime star del cinema (per noi ultimamente hai incontrato Paul Newman)…
«Sì ne ho incontrati proprio tanti. Di tutti conservo ancora le preziose e rare foto d’epoca. “Era un’altro mondo fatto di balletti, eleganza, snobismo”. Era la copia di Hollywood spostata a New York e Washington. Mi ambientai rapidamente intervistando la lunga schiera dei personaggi del mondo della celluloide, come Frank Sinatra (nella foto in alto insieme a Walter Winchell il più famoso giornalista Usa. (Lino è il primo da sinistra ndr ), Dean Martin, Perry Como, (Foto con Lino)(questi due abruzzesi) e tanti altri illustri personaggi. L’America mi “ingoiò” letteralmente».
Sei stato circa 10 anni a Little Italy e poi ti sei trasferito…
«Esatto, nella zona di Westchester, divenuta una delle più ricche degli Stati Uniti, ad un tiro di fucile dagli aeroporti che usavo quasi settimanalmente per portarmi nella varie città dove si svolgeva una manifestazione sportiva. Infine nel 2000, la famiglia decise di “espatriare” cercando un luogo calmo, pacifico, capace di ispirare l’arte di mio figlio Adriano e anche la mia verve giornalistica . La scelta cadde su Cambridge, a nord dello stato di New York, distante 3 ore da Montreal, 3 da New York, un’ora da Saratoga spring, famosa per il suo ippodromo e un’ora anche da Albany, capitale dello stato della “Grande Mela”, e mezz’ora dal Vermont ricercato posto montano di sci».
Sembra un paesaggio da sogno che la maggior parte degli Italiani conosce solo grazie alla Tv e ai film
«In effetti un magnifico fiume sfiora oggi la nostra tenuta, dove Adriano e gli amici effettuano battute di pesca, tanti ettari di terreno verde, alberi secolari ed un garage capace di ospitare 9 macchine antiche, passione di mio figlio e del giovane Adriano Jr.. E’ veramente un paradiso che credo di meritare, dopo una incredibile carriera pluridecennale».
Ci sarebbero veramente tantissime cose che vorrei ancora chiederti… magari, però, ripensaci: quel libro dei ricordi scrivilo: anche solo la parte americana basterebbe.
Grazie Lino e buon lavoro.
1 commento:
Lino Manocchia, grande amico, giornalista del settimanale di automobilismo sportivo "Autosprint", mi accompagnò alla 500 miglia di Daytona nel 1987, chissà se oggi ancora è in vita. Maurizio Possumato
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